Dalla rivista K.
Dall’attacco del 7 ottobre e la guerra condotta da Israele a Gaza, la parola “genocidio” si è imposta nel dibattito pubblico, quasi una pietra di paragone. Simbolo di impegno intransigente per alcuni, non è più di competenza del diritto: diventa imperativo morale assoluto. In questo testo Matthew Bolton analizza lo slittamento del termine — da accusa dal valore giuridico a condanna ontologica — e mostra come il suo uso, alimentato dalla teoria del “colonialismo d’insediamento”, porti a escludere qualsiasi possibilità di azione politica sulla guerra di distruzione a Gaza condotta dal governo Netanyahu. Poiché affermando che Israele attua una logica di annientamento intrinseca alla sua stessa esistenza, si trasforma l’equazione “Israele = genocidio” in assioma di un’ideologia che rifiuta per principio qualsiasi soluzione politica al conflitto.
Nel febbraio 2024 Ash Sarkar, personalità britannica dei social media, ha intervistato Bernie Sanders, senatore degli Stati Uniti da molti anni pilastro della sinistra americana. Ne ha pubblicato su X un filmato di quattro minuti. Il video è diventato rapidamente virale e ha raccolto più di otto milioni di visualizzazioni. “Ho chiesto tre volte a Bernie Sanders se riteneva che l’attacco di Israele a Gaza costituisse un genocidio“, ha scritto. “Ecco cosa ha risposto”. La prima volta che gli è stata posta la domanda ha risposto: “ciò che Israele sta facendo è assolutamente vergognoso, orribile” e che sta “facendo tutto ciò che è in suo potere per mettervi fine”. Ha dichiarato di aver “guidato l’opposizione” al Congresso contro un disegno di legge che avrebbe inviato 14 miliardi di dollari in aiuti dagli Stati Uniti a Israele perché “non voleva vedere gli Stati Uniti complici di ciò che Netanyahu e i suoi amici di destra stanno infliggendo al popolo palestinese”. Chiama a un “cessate il fuoco umanitario” e ai negoziati, per “trovare… una soluzione a lungo termine”. Sarkar, insoddisfatta, ha chiesto di nuovo: si tratta di un genocidio? “Possiamo discutere delle definizioni – ha risposto Sanders – ma ciò che conta è impedire ulteriori morti e far arrivare gli aiuti a Gaza”. Sarkar fa un ultimo tentativo: genocidio o no? “Possiamo parlarne – risponde Sanders – ma cosa significa in termini concreti?”. Per poi ripetere che quello che sta cercando di fare è fermare gli aiuti che dagli USA arrivano a Israele, in modo che “Netanyahu e i suoi amici di destra si rendano conto che non è una buona idea continuare la loro guerra di distruzione”.
Le reazioni sono state violente: Sanders è stato accusato di essere un “vigliacco senza spina dorsale” e un “delinquente”. Il modo in cui “gira intorno al problema” è considerato “rivelatore”. Alcuni sono andati oltre. Sanders, che è ebreo e ha trascorso parte della sua giovinezza in un kibbutz simile a quelli attaccati il 7 ottobre, è un “sionista, il che spiega tutto ciò che ha fatto e detto da allora”. Una settimana dopo, sempre su X, è stato pubblicato un altro video in cui Sanders parlava all’Università di Dublino. In quell’occasione il suo punto di vista sul termine genocidio pareva essere diventato un po’ più chiaro. “Quando si arriva a quella parola [genocidio] – ha detto – mi sento a disagio… e poi non so, vedete, io non so cosa sia genocidio. Dobbiamo stare attenti quando usiamo questo termine”. A queste parole, coloro che stanno filmando esplodono di rabbia e gridano a Sanders: “Questo è un genocidio… Bernie, tu stesso hai finanziato il sionismo, hai finanziato lo stato coloniale israeliano… bugiardo, bugiardo, negazionista… sei un assassino di bambini, sei un negazionista… I nativi americani sono ancora vittime di genocidio [da parte degli Stati Uniti], e non ti ho mai sentito parlare di genocidio”. Da allora Sanders ha dovuto affrontare altre proteste simili durante le sue apparizioni pubbliche.
Il trattamento riservato a Sanders, un uomo che ha riportato l’idea del socialismo democratico nell’agenda politica degli Stati Uniti praticamente da solo, riassume il ruolo totemico che il concetto di genocidio ha finito per ricoprire nell’opposizione alla guerra di Israele a Gaza. C’è un politico di spicco che rifiuta la guerra in maniera inequivocabile e agisce concretamente ai massimi livelli del governo americano. Tuttavia, poiché si rifiuta di usare una specifica parola per descrivere la violenza che cerca di impedire, viene ridicolizzato e vilipeso. E Sanders non è il solo a trovarsi in questa situazione. L’opposizione a una guerra la cui legittimità iniziale è stata progressivamente minata da un corso degli eventi divenuto indifendibile si ritrova frammentata e indebolita, in maniera forse irrecuperabile. Cosa che porta a una domanda: se la priorità del movimento contro la guerra è impedire nuovi morti e nuove distruzioni a Gaza (e l’urgenza di questa richiesta, soprattutto dopo la ripresa dei bombardamenti israeliani e il blocco degli aiuti nel marzo 2025 non può essere messa in dubbio), perché è importante il nome che le viene dato? Perché sacrificare l’unità del movimento sull’altare del genocidio?
D’altro canto l’uso immediato del termine “genocidio” (le prime accuse sono state mosse mentre i cadaveri venivano ancora raccolti nel campo di Nova e nei kibbutz) non è che un’ulteriore prova dell’inflazione semantica generale di questa parola negli ultimi decenni. Dalle accuse secondo cui i governi che hanno ritardato l’imposizione del lockdown per il Covid-19 avrebbero commesso genocidio, alle nozioni speciose di “genocidio trans” o “genocidio bianco”, la potenza emotiva ha trasformato il concetto in un’arma retorica onnipresente e monotona in una economia dell’attenzione alimentata dai social media.
Per quanto riguarda Israele la questione va oltre l’indignazione online, come sempre. Per alcuni l’attrattiva del concetto di genocidio in questo contesto risiede nella possibilità che esso offre di invertire i ruoli di vittima e carnefice, o addirittura di volgere la memoria della Shoah “contro” Israele. Accusando Israele – uno Stato nato dalle ceneri della popolazione ebraica europea – di genocidio, e di fare agli altri ciò che un tempo era stato fatto al suo popolo, lo Stato ebraico viene messo sullo stesso piano del regime nazista.
Per citare Philip Spencer “Il senso di colpa per ciò che è stato fatto agli ebrei c’è sempre stato. L’accusa di genocidio arriva a cancellarlo una volta per tutte. Ora chiunque può dire che gli ebrei non meritano più compassione perché sono feroci quanto lo sono stati i nazisti, o addirittura peggio”. Allo stesso tempo, secondo Spencer, accusando Israele di genocidio per la sua risposta alle atrocità di Hamas, esse stesse permeate da intenti genocidi, “il concetto e l’accusa di genocidio vengono capovolti”.
L’entusiasmo con cui in tanti hanno colto subito l’occasione per accusare Israele di genocidio all’indomani del 7 ottobre ha sicuramente a che fare con un brivido trasgressivo: finalmente si può far sparire la Shoah. Pankaj Mishra – in una lezione tenuta dal pulpito della chiesa di Saint James a Clerkenwell – ha ricordato come sia stata la guerra di Israele a “far saltare in aria l’edificio delle norme globali” costruito dopo la Shoah, e non piuttosto l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, l’uso sfacciato di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad o l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti. Non è un caso. E non è un caso che i termini “campo di concentramento”, “Auschwitz”, “ghetto di Varsavia”, “genocidio” e “Olocausto” o “Shoah” siano stati a lungo utilizzati ostentatamente per condannare il trattamento riservato da Israele a Gaza e al popolo palestinese. Il “disagio” che ha espresso Sanders nei confronti dell’uso del termine genocidio da parte del movimento pacifista deriva probabilmente dalla sua percezione di questa dinamica. Il fatto che Sarkar sia consapevole del peso di questa parola per Bernie Sanders conferisce all’intervista la spiacevole caratteristica di un tentativo di confessione forzata.
Matthew Bolton è un ricercatore post-dottorato presso la Facoltà di Giurisprudenza della Queen Mary University di Londra. In precedenza ha lavorato presso il Zentrum für Antisemitismusforschung presso la Technische Universität di Berlino. Molto ha scritto sull’antisemitismo contemporaneo.